Intervento del Presidente Raffaele Greco – Presidente della III Sezione del Consiglio di Stato al II Convegno Nazionale “Il Codice dei contratti pubblici e il suo correttivo: bilancio di due anni di vigenza e nuove prospettive”

le novità del project financing:

ancora in cerca del capitale privato

1. Il titolo di questa mia relazione è solo fino a un certo punto provocatorio: in effetti, fin dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, l’istituto del project financing (di origine europea, anche se non direttamente disciplinato dalle direttive su appalti e concessioni: Clarich 1326-1327)[1], è stato considerato dai commentatori come una modalità di affidamento delle opere pubbliche da valorizzare – e disciplinare in modo adeguato – in ragione della sua capacità di attrarre investimenti privati per la realizzazione di iniziative di pubblico interesse, in modo da sopperire alla crescente scarsità di risorse pubbliche (Clarich 1321, Garofoli-Ferrari 1174).

Questa funzione di stimolo ed attrazione di capitali privati per la realizzazione di opere pubbliche è stata presente al nostro legislatore fin dall’introduzione del PF come un obiettivo fondamentale da perseguire, comune a tutte le operazioni di partenariato pubblico-privato, e tutte le – innumerevoli – modifiche che la relativa disciplina ha conosciuto dagli anni Novanta fino ad oggi sono sempre state intese a conseguire tale obiettivo (Greco del 2009). Non casualmente, anche la legge delega che ha portato al nuovo Codice dei contratti pubblici conteneva fra i criteri direttivi la “razionalizzazione, semplificazione, anche mediante la previsione di contratti-tipo e di bandi-tipo, ed estensione delle forme di partenariato pubblico-privato, con particolare riguardo alle concessioni di servizi, alla finanza di progetto e alla locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità, anche al fine di rendere tali procedure effettivamente attrattive per gli investitori professionali, oltre che per gli operatori del mercato delle opere pubbliche e dell’erogazione dei servizi resi in concessione[2], garantendo la trasparenza e la pubblicità degli atti” (articolo 1, comma 2, lettera aa), legge 21 giugno 2022, n. 78).

L’uso nella disposizione dell’avverbio “effettivamente”, specie se si considera che essa si pone – come detto – a valle di un processo pressoché incessante di adeguamento della disciplina, costituisce un chiaro indizio che il predetto obiettivo di attrarre gli investimenti privati non è stato pienamente conseguito, o non lo è stato affatto. La conferma di ciò si trae dai dati statistici, che confermano, pur nell’ambito di un trend di crescita del valore complessivo dei contratti di PPP, che questo resta largamente inferiore a quello degli appalti: con riferimento all’anno 2023, secondo le stime del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (DIPE) della Presidenza del Consiglio dei Ministri – cui l’articolo 175, comma 7, del nuovo Codice conferma una funzione di monitoraggio sulla materia - il valore totale dei contratti di PPP sottoscritti in Italia ammonta a poco meno di 19 miliardi di euro, mentre l’importo degli appalti aggiudicati individuato dall’ANAC nella sua Relazione annuale è di poco superiore ai 283 miliardi di euro (v. Giovannini per i corrispondenti dati del 2022). Si tratta certamente di dati solo indicativi, se si tiene conto che il DIPE conosce solo le operazioni che sono allo stesso comunicate in ottemperanza al disposto del citato articolo 175, comma 7, e che l’ANAC include nelle proprie rilevazioni i soli appalti di valore superiore ai 40.000,00 euro, ma il loro significato è chiaro.

Un’ulteriore conferma dello scarso successo del PF e del PPP in generale, quanto meno quanto alla loro capacità di sollevare effettivamente le amministrazioni pubbliche dai rischi economici connessi alle iniziative di interesse pubblico, trasferendoli a carico degli investitori privati, si trae dalle rilevazioni svolte dall’Istat, che è il soggetto istituzionalmente competente a procedere alla riclassificazione ex post dei contratti di PPP secondo le disposizioni del Regolamento della Commissione UE n. 549/2013 (c.d. SEC 2010) e le successive direttive e linee guida dell’Eurostat, e quindi a verificare se alla stregua delle regole contabili europee essi debba essere iscritti off balance oppure on balance sheet. In sostanza, un’opera realizzata in PPP dovrebbe poter essere classificata off balance qualora il rischio dell’operazione economica ricada in prevalenza sulla parte privata, laddove nella concessione di mera costruzione il rischio grava sulla p.a., e quindi la contabilizzazione è on balance (con intuibili diversi effetti sul debito pubblico). (Manzetti)

Ebbene, se si guarda ai risultati di tale riclassificazione aggiornati dal 2010 fino a tutto il 2023, emerge che per il 91% dei contratti di PPP i rischi non sono stati trasferiti in capo al soggetto privato, ciò che ne ha determinato la riclassificazione on balance; nell’ambito di questi ultimi, per il 91% si registra in capo alla p.a. il rischio di costruzione (ovvero il rischio legato al ritardo nei tempi di consegna, al non rispetto degli standard di progetto, all’aumento dei costi, al mancato completamento dell’opera, ecc) e per l’81% il rischio di domanda (in particolare il rischio legato ai diversi volumi di domanda del servizio che il partner privato deve soddisfare, ovvero il rischio legato alla mancanza di utenza e quindi di flussi di cassa) (Relazione DIPE 2024). Il che può voler dire due cose: che il ricorso al modello del PPP avviene sovente per tipi di opere intrinsecamente inidonee a garantire un adeguato “rientro” degli investimenti privati ovvero che l’operazione contrattuale spesso non è assistita da un’adeguata analisi e allocazione dei rischi. O forse tutte e due assieme, chi lo sa.

La criticità non è però solamente italiana, ma di livello europeo: secondo il Centro di consulenza per i PPP (E.P.E.C.) istituito presso la Banca europea per gli investimenti (B.E.I.) il mercato dei PPP in tutta Europa nel 2021 aveva fatto registrare rispetto all’anno precedente un calo di ben il 13%, solo in parte spiegabile con l’insorgere dell’emergenza pandemica.

La verità è che soprattutto negli ultimi due decenni abbiamo assistito, da parte degli studiosi e della stessa politica, a quella che è stata definita la “retorica” del partenariato, ossia alla tendenza a enfatizzarne l’innovatività e i vantaggi che esso comporta rispetto agli altri sistemi di affidamento dei contratti pubblici (Manfredi). A fronte di ciò, però, nella nostra amministrazione palesemente manca una vera e propria “cultura del PPP”, la quale – in linea con quanto già da tempo suggerito stavolta dalla Corte dei conti dell’UE[3] – imporrebbe innanzitutto una diversa formazione del personale delle stazioni appaltanti, nell’ambito della più generale qualificazione di queste ultime (A. Giovannini).

In questo panorama, noi abbiamo assistito nel Codice del 2023 ancora una volta a scelte fortemente innovative rispetto alla disciplina previgente, e a stretto giro, con il correttivo di cui al d.lgs. 31 dicembre 2024, n. 209, a nuove incisive modifiche alla stessa normativa introdotta dal Codice: basti pensare che l’unico articolo del Codice ad essere integralmente sostituito, e non solo puntualmente novellato, dal correttivo è proprio l’articolo 193, relativo alla procedura di finanza di progetto (Contessa). E, come si vedrà, se già le innovative scelte del legislatore del 2023 in tema di PPP (e PF in particolare) non avevano riscosso unanimi consensi tra studiosi e operatori del settore, le ulteriori modifiche introdotte dal correttivo potrebbero produrre addirittura risultati opposti rispetto agli obiettivi di semplificazione ed “attrattività” che in questo settore si sta cercando faticosamente di perseguire da tanti anni.

 2. Ma, andando per ordine, va detto innanzitutto che questa proclamata innovatività dell’istituto in realtà è smentita dallo sguardo ai precedenti storici. Senza risalire troppo indietro nel tempo (c’è chi ha scomodato anche la Compagnia delle Indie orientali), e per limitare la considerazione all’esperienza italiana, possono ricordarsi le concessioni ferroviarie post-unitarie come disciplinate dall’articolo 244 dell’allegato F alla legge n. 2248/1865, che venivano rilasciate su iniziativa del privato interessato, il quale nella domanda doveva fornire “una dimostrazione della [loro] pubblica utilità, dall’indicazione del modo col quale s’intenda provvedere alle occorrenti spese, dal calcolo presuntivo dell’importare di sua costruzione e primo stabilimento, e finalmente da quei piani, profili e disegni che sono necessari per potere pronunziare giudizio sulla regolarità tecnica del progetto, e sul grado di esattezza del calcolo suddetto”, mentre il Ministero dei lavori pubblici avrebbe potuto “richiedere dai postulanti la presentazione del calcolo presuntivo del costo dell’esercizio della ferrovia e quello del suo prodotto lordo, colla esibizione degli elementi statistici su cui questo sarà fondato” (Manfredi).

Questo esempio ci fornisce anche un altro dato utile per ragionare sulle “difficoltà” incontrate nel nostro ordinamento dal PPP e PF, e cioè il fatto che in tale sistema questi istituti si sono innestati sul ceppo della concessione, che è uno degli istituti più antichi della nostra esperienza giuridica e che – sebbene per lungo tempo inteso in chiave esclusivamente “provvedimentale”, e solo di recente calato in una dimensione più squisitamente “contrattuale” (A. Deodato + Cass. civ.) – era già tradizionalmente connotato dalla trasposizione del “rischio operativo” dalla p.a. al privato.

Un dato è però certo, laddove la stessa iniziativa della realizzazione di un’opera (o di un asset come si dice in economia) provenga dal privato che propone alla p.a. di investirvi le proprie risorse, e ovviamente lo fa aspettandosi di riceverne un ritorno economico, da un lato è più semplice e perfino normale pervenire a un regolamento di interessi in cui il rischio derivante dalla gestione dell’opera o dell’asset rimanga a carico dello stesso privato, con evidente beneficio delle finanze pubbliche; dall’altro lato, è evidente la posizione di vantaggio in cui il proponente potrebbe trovarsi in un successivo confronto competitivo con altri operatori economici (vantaggio che il legislatore riconosce e finanche “istituzionalizza” con la previsione del diritto di prelazione, su cui si tornerà a conclusione del presente intervento).

L’evoluzione storica dell’istituto in Italia, come è stato acutamente notato (Manfredi), è condizionata da varianti non solo giuridiche ma anche economiche: da un lato, vi era la tradizionale concezione unilaterale e autoritativa dell’azione della p.a. (come già detto), ma dall’altra anche – e tutto sommato – la non necessità di una collaborazione pubblico-privato nel contesto economico-sociale del Novecento, laddove si afferma l’idea dello Stato-imprenditore e quindi per lungo tempo i concessionari delle principali infrastrutture sono imprese in mano pubblica. Solo sul finire del secolo, mentre sul piano giuridico si affaccia l’idea dell’amministrare “per consenso” e si profila l’abbandono dei tradizionali modelli autoritativi, i bilanci pubblici si rivelano sempre meno in grado di far fronte ai crescenti bisogni della collettività ed emerge questa esigenza di reperire capitali privati (anche se studiosi come F. Caffè hanno affermato che si trattava di un mero pretesto per favorire l’affermazione di quello che oggi chiamiamo neoliberismo). Su tutto, poi, intervengono le regole dell’Unione europea, le quali – come pure già detto –hanno una rilevanza soprattutto sul piano contabile, in quanto consentono attraverso la trasposizione del rischio di gestire in un certo modo il debito pubblico; per questo si arriva al famoso Libro verde della Commissione europea del 2004 sul PPP, e da ultimo alla direttiva 2014/23/UE, la quale però si occupa solo delle concessioni (considerate il principale strumento giuridico del PPP).

Con specifico riguardo al project financing, esso si affaccia nell’ordinamento italiano con la c.d. legge Merloni bis (l. 18 novembre 1998, n. 415), che introduce nella legge 11 febbraio 1994, n. 109, gli articoli da 37-bis a 37-nonies (poi più volte rimaneggiati): in questa fase, però, la finanza di progetto è ancora considerata soltanto un nuovo procedimento di affidamento delle concessioni.

è solo con il primo codice dei contratti pubblici (d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163) che si affaccia l’idea che il PF possa configurare un tipo contrattuale autonomo, specialmente dopo il correttivo del 2008, che inserisce nell’articolo un’autonoma definizione dei contratti di PPP, qualificati come “contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti”, aggiungendosi poi che fra essi rientrano “la concessione di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, il contratto di disponibilità, l’affidamento di lavori mediante finanza di progetto, le società miste” nonché “l’affidamento a contraente generale ove il corrispettivo per la realizzazione dell’opera sia in tutto o in parte posticipato e collegato alla disponibilità dell’opera per il committente o per utenti terzi” (comma 15-ter). Pertanto, pur con qualche ambiguità (l’uso del termine “affidamento” lasciava già comprendere che ci si riferiva non già a un contratto, ma a una procedura), l’idea è che tanto la concessione quanto il PF siano due species del più ampio genus del PPP.

Prima dell’entrata in vigore del codice del 2016, sembrava ormai acquisita in dottrina e giurisprudenza la configurazione “bifasica” del PF a iniziativa privata, laddove ad una prima fase di esame e valutazione della proposta proveniente dal privato, che può concludersi con la dichiarazione d’interesse pubblico della stessa e la individuazione del promotore, ne segue una seconda, in cui la proposta del promotore diviene la base di una vera e propria procedura a evidenza pubblica finalizzata a selezionare l’affidatario della prestazione (Ad. pl., 28 gennaio 2012, n. 1). A sua volta, la prima fase era scandita in due successivi momenti: il primo di carattere tecnico, inteso ad “accertare l’idoneità della proposta sulla base di appositi parametri e successivamente sulla rispondenza della proposta al pubblico interesse”, il secondo “propriamente discrezionale in quanto riguarda la comparazione degli interessi al momento attuale” (Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, determinazione 4 ottobre 2001, n. 20, e giurisprudenza successiva).

Così configurato, l’istituto poneva una serie di problemi giuridici che hanno alimentato un elevatissimo contenzioso: fra questi l’impugnabilità o meno della dichiarazione di interesse pubblico della proposta (risolta in senso affermativo dalla già citata Plenaria n. 1/2012), i limiti al sindacato giurisdizionale sulla valutazione operata dalla p.a. sulla proposta del privato, l’applicabilità o meno delle regole dell’evidenza pubblica alla fase di selezione del promotore e la tutela dell’affidamento del promotore in caso di mancato svolgimento della gara (Parisi).

In questo panorama già non chiarissimo, il codice del 2016 è intervenuto con scelte destinate a ingenerare dubbi e incertezze anche sul piano sistematico e definitorio: in esso era tracciata una distinzione tra i contratti di concessione (cui era dedicata la Parte III) e i contratti di PPP, incluso il PF (regolati invece dalla Parte IV). L’elemento distintivo – come evidenziato dal Consiglio di Stato nel suo parere sullo schema di decreto - era dichiaratamente individuato nella diversa tipologia delle opere oggetto dell’affidamento, nonché nella conseguente diversità della natura del rischio operativo trasferito in capo all’affidatario: nel primo caso si trattava di opere “calde”, ossia dotate di una intrinseca capacità di generare reddito attraverso ricavi di utenza, in misura tale da ripagare i costi di investimento e di remunerare adeguatamente il capitale coinvolto nell’arco della vita della concessione, venendo dunque in evidenza il c.d. rischio di domanda, intesa come domanda effettiva di lavori o servizi che sono oggetto del contratto”; nel secondo caso (opere “fredde”) prevale il c.d. rischio di disponibilità, ossia “in particolare il rischio che la fornitura di servizi non corrisponda al livello qualitativo e quantitativo dedotto in contratto” (Cons. Stato, comm. spec., parere n. 855/2016).

Si trattava di un tentativo apprezzabile di concentrare l’attenzione sulle peculiarità economiche delle diverse operazioni di PPP, ma alla fine lasciava irrisolta l’ambiguità definitoria degli istituti in questione nella misura in cui non solo – al pari del codice del 2006 - qualificava come un contratto la finanza di progetto, ma continuava a dare la stessa definizione di tutti i procedimenti (sic!) di affidamento dei contratti di PPP.

Al di là di ciò, il PF trovava la propria disciplina specifica nell’articolo 183 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il quale contemplava in realtà due procedimenti, la finanza di progetto a iniziativa pubblica (commi 1-14) e a iniziativa privata (comma 15), entrambi connotati da un’ampia negoziazione procedimentalizzata, non riscontrabile in nessuna altra procedura di affidamento, neanche nel flessibile dialogo competitivo, che implica sempre una strutturazione ex ante delle differenti fasi con tutti i concorrenti coinvolti (Ricchi). L’introduzione di una disciplina sempre più dettagliata rispondeva, poi, all’intento di fornire alle amministrazioni gli strumenti per una rapida valutazione delle proposte, anche sotto il profilo del c.d. value for money, ossia della comparazione (oggi espressamente prevista dall’articolo 175, comma 2, secondo periodo, del codice del 2023) fra i costi cui l’amministrazione sarebbe andata incontro nell’operazione di PPP e quelli che avrebbe sostenuto ricorrendo agli strumenti tradizionali di affidamento (Parisi).

Sul piano dell’attrattività degli investimenti privati, le disposizioni del codice previgente sui contratti di PPP in generale erano state criticate per l’assenza di previsioni maggiormente idonee a incentivare il coinvolgimento degli investitori istituzionali. Infatti, negli ultimi decenni in tutti i paesi dell’area OCSE il risparmio istituzionale (fondi pensione, assicurazioni vita, Casse di previdenza) è cresciuto in modo esponenziale e questa massa rilevante di “risorse responsabili” – di previdenza contributiva – ha indotto gli investitori istituzionali (fondi infrastrutturali partecipati da fondi pensione e assicurazioni vita o anche direttamente tali investitori) a cercare impieghi idonei a garantire equilibri demografico-finanziari di lungo termine. In tale prospettiva accanto all’eleggibilità per l’equity e alla bancabilità per i finanziamenti assume per tali investitori importanza fondamentale la “addizionalità”, ovvero l’impatto effettivo sull’economia, l’ambiente, l’innovazione e le dinamiche sociali. Pertanto, una parte crescente di risorse è indirizzata ad investimenti in infrastrutture sociali urbane, nei settori della sanità e dell’istruzione, costruite con canone di disponibilità in quanto dedicate all’erogazione di servizi pubblici.

Tuttavia, è da tempo ampiamente diffusa l’opinione che in Italia gli investitori istituzionali incontrino difficoltà a investire in infrastrutture per i limiti e le anomalie che caratterizzano la regolazione del PPP, storicamente caratterizzata da una visione appaltistica. Sul punto, soccorre ancora una volta il DIPE, che individua, oltre alle già evidenziate carenze nella formazione del personale della p.a., due principali cause che spiegherebbero il non adeguato sviluppo del PPP in Italia: da un lato, l’incertezza e l’eccessiva lunghezza dei processi autorizzativi, incertezza che è tecnica (continua revisione e aggiornamento delle normative costruttive, tecnico-realizzative, impiantistiche, antisismiche), amministrativa (procedure, norme e regolamenti attuativi in continuo mutamento) ed economico-finanziaria (per citarne alcuni: stanziamenti erogati in parte, decaduti, non utilizzati interamente, nonché tagli di bilancio o riallocazioni di risorse); dall’altro, la sovente carente e inadeguata definizione delle clausole contrattuali, oltre che la difficoltà di indicare in maniera puntuale gli obblighi e le responsabilità delle parti, che aumenta il rischio di contenziosi e scoraggia gli investitori. In conseguenza di ciò, gli operatori del settore evidenziavano i profili di inadeguatezza della normativa previgente, cui il nuovo codice avrebbe dovuto porre rimedio:

a)      innanzitutto, nel quadro normativo italiano un investitore aggiudicatario di un contratto di concessione di costruzione e gestione, qualora non avesse i requisiti tecnici di un’impresa di costruzioni, doveva obbligatoriamente costituirsi in r.t.i. o costituire una società di progetto con una o più imprese esecutrici (e/o gestori di servizi);

b)      di poi, qualora l’investitore che non avesse i requisiti tecnici, e non si fosse costituito in r.t.i. o avesse costituito una società di progetto con le imprese esecutrici, fosse stato selezionato come promotore, doveva affidare i lavori con una gara ad evidenza pubblica (articolo 164 del codice del 2016), come se fosse stato una stazione pubblica appaltante anziché un privato.

Questa normativa era criticata dagli stakeholders in quanto, oltre a garantire una rendita di posizione alle imprese di costruzione, finiva col penalizzare l’investitore professionale e istituzionale che rischiando equity avesse come obiettivo primario non la costruzione, ma l’organizzazione dell’intera operazione di costruzione e gestione di un asset, al fine di ricavarne un ritorno predefinito, operando in collaborazione con la p.a. concedente durante le fasi del processo. Si segnalava altresì che l’investitore con il contratto di concessione si assumeva tutti i rischi dell’operazione, compreso il rischio costruzione, ma non quello dell’impresa di costruzioni che si configura come un fornitore di una prestazione, e pertanto avrebbe dovuto essere messo in grado di organizzare liberamente i fattori produttivi per rispondere complessivamente alle obbligazioni sottoscritte.

Una prima risposta a queste esigenze era giunta dalla legge 14 giugno 2019, n. 55, di conversione del decreto-legge 18 aprile 2019, n. 32, con l’introduzione nell’articolo 183 del d.lgs. n. 50/2016 del comma 17-bis, che definiva il perimetro degli investitori istituzionali abilitati a presentare autonomamente proposte di PPP senza l’obbligo di indicare nella fase di offerta le imprese esecutrici dei lavori e/o il gestore dei servizi, né tantomeno di costituire un r.t.i. con l’impresa esecutrice dei lavori e/o gestore dei servizi. Con la nuova disposizione il legislatore aveva quindi esteso anche agli investitori istituzionali la possibilità di presentare proposte tramite la modalità della finanza di progetto, ricomprendendo anche gli istituti nazionali di promozione (quale, ad esempio, Cassa depositi e prestiti S.p.a. che si configura come istituto nazionale di promozione ai sensi della normativa europea sugli investimenti strategici). Tali soggetti si aggiungevano quindi all’elenco del precedente comma 17 dello stesso articolo 183 che già comprendeva, fra gli altri, i fondi immobiliari, gli organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR) istituiti in Italia, gli enti di previdenza, le imprese di assicurazione italiane, gli intermediari bancari e finanziari italiani vigilati e gli investitori istituzionali esteri.

La norma lasciava nell’incertezza due aspetti non banali, anzi fondamentali perché la previsione potesse avere in concreto le ricadute auspicate: da un lato, non era ben chiaro come dovessero essere individuati i requisiti di qualificazione dei professionisti, studi e società che potevano essere associati o consorziati dai soggetti investitori per la redazione del progetto di cui la proposta si compone (se, infatti, il presupposto per il coinvolgimento dei progettisti è che i soggetti investitori siano “privi dei requisiti tecnici” occorrerebbe che in qualche momento tali requisiti fossero stati definiti, il che non è trattandosi di proposte spontaneamente avanzate dagli investitori stessi); in secondo luogo, la norma non si occupava della fase successiva di affidamento dei lavori da parte dei soggetti concessionari risultati vincitori del bando, dovendo pertanto concludersi che restava valida anche per essi la regola generale dell’articolo 164, comma 5, del codice, e quindi che all’affidamento doveva procedersi mediante procedura a evidenza pubblica. Era questo, secondo gli stakeholders, il principale vincolo la cui permanenza – non giustificata da retrostanti disposizioni eurounitarie - scoraggiava un serio impegno degli investitori istituzionali in questa tipologia di operazioni economiche.

Successivamente, con il decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120), si è modificato il comma 15 del citato articolo 183, consentendo agli operatori economici di presentare proposte di project financing anche per interventi già ricompresi nella programmazione delle opere pubbliche (superando una limitazione della precedente disciplina che da più parti si riteneva ormai ingiustificata).

 3. Dobbiamo allora chiederci se e in quale misura la nuova disciplina contenuta nel Codice del 2023 si sia fatta carico dei problemi sopra indicati e abbia cercato di porvi rimedio. L’attenzione del legislatore è sottolineata dalla scelta di dedicare un libro autonomo alle concessioni, in cui, come si legge nella Relazione di accompagnamento “si valorizza il partenariato pubblico privato, rendendo i contratti più solidi e aumentando la bancabilità”; di poi, la stessa Relazione esalta la scelta di ridurre in modo consistente i commi, le parole e i caratteri utilizzando, realizzando una semplificazione del complesso sistema di norme e linee guida in cui si articolava la disciplina previgente: una scelta che però secondo alcuni, nella misura in cui recepisce dandoli quasi per scontati alcuni concetti e istituti della precedente normativa, eliminando al tempo stesso le disposizioni e le definizioni che avrebbero dovuto contribuire a renderli comprensibili, rischia di frustrare proprio quell’obiettivo di formazione e familiarizzazione della p.a. con i “nuovi” istituti che si ritiene costituire una pre-condizione della loro implementazione (Ricchi).

In effetti, il nuovo codice costituisce certamente un corpus normativo più coerente di quello precedente, ma caratterizzato da un ancor più accentuato tasso di specializzazione, avendo innanzitutto il merito di dare una struttura finalmente compiuta all’istituto del PPP, eletto a schema generale di contratto pubblico, del tutto alternativo all’appalto e a cui viene ricondotto, anche sul piano topografico, il contratto di concessione. Il Libro IV del codice si apre, difatti, con la definizione generale del partenariato pubblico-privato, “operazione economica” che si sviluppa in un rapporto contrattuale di lungo periodo, nel quale “la copertura dei fabbisogni finanziari connessi alla realizzazione del progetto proviene in misura significativa da risorse reperite dalla parte privata”, su cui deve essere allocato il rischio operativo e cui “spetta il compito di realizzare e gestire il progetto, mentre alla parte pubblica quello di definire gli obiettivi e di verificarne l’attuazione” (articolo 174).

Di poi, con scelta non proprio felice, è riprodotta a livello normativo la categorizzazione, di ascendenza europea, fra PPP di tipo contrattuale – l’unico disciplinato dal codice – e PPP di tipo istituzionale, così traducendo sul piano del diritto positivo una distinzione di natura prettamente dottrinale e dalla portata più propriamente descrittiva. Con la nozione di PPP di tipo istituzionale si fa, infatti, riferimento alla “creazione di un ente partecipato congiuntamente dalla parte privata e da quella pubblica” (articolo 174, comma 4) e, quindi, ad un fenomeno non rientrante nell’ambito del codice e di cui si occupa – senza, peraltro, che tale definizione ivi ricorra –, in particolare, il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175). Ciò che in questa sede interessa è, quindi, esclusivamente il PPP di tipo contrattuale, genus cui il codice riconduce i vari tipi della concessione (che del PPP costituisce in un certo qual modo il paradigma), della locazione finanziaria (c.d. leasing in costruendo) e del contratto di disponibilità, “nonché gli altri contratti stipulati dalla pubblica amministrazione con operatori economici privati che abbiano i contenuti di cui al comma 1 e siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela”.

Al di là della superfluità del riferimento agli “interessi meritevoli di tutela”, che, ai sensi dell’articolo 1322 c.c., devono comunque sorreggere la causa di qualsiasi contratto atipico, ivi certamente compresi quelli che hanno come parte una p.a. (e ciò anzi vale a fortiori per quest’ultima, venendo in rilievo anche l’interesse pubblico sotteso a detti negozi giuridici), si tratta di norma che, – pur non essendo innovativa rispetto al passato codice (articolo 180, ultimo comma, d.lgs. n. 50/2016) – ha il merito di ribadire il principio di autonomia contrattuale, che oggi è stato positivizzato nell’articolo 8 del codice. Ed è principio particolarmente rilevante nell’ambito in esame, se sol si pensa che, ancor prima della espressa previsione in tal senso, già la dottrina e la giurisprudenza (Cons. Stato sez. V, 21 febbraio 2020, n. 1327) avevano ricondotto al modello del PPP i contratti, appunto atipici, di rendimento energetico (energy performance contract - EPC), prima inseriti nel d.lgs. n. 50/2016 dal già citato “decreto semplificazioni” (d.l. n. 76/2020) e oggi previsti dall’articolo 200 del codice.

Il legislatore, assai opportunamente, si è poi discostato dalla scelta effettuata con il codice del 2016, là dove si dettava una tassonomia estremamente analitica dei rischi allocabili in capo alle parti dei contratti di partenariato (già in sede definitoria; cfr. articolo 3, d.lgs. n. 50/2016), abbozzandone invece solo i tratti generali – conformemente alla direttiva n. 23 – e demandandone la specificazione ad atti amministrativi generali, come bandi-tipo, capitolati-tipo ovvero contratti-tipo redatti dall’ANAC (articolo 222; cfr., con particolare riferimento al PPP, l’articolo 197 in tema di contratto di disponibilità), ovvero alla prassi amministrativa (cui oggi sarà da ricondurre, ad esempio, l’elaborazione della c.d. “matrice dei rischi”).

La corretta allocazione dei rischi, come noto, è indispensabile per qualificare il contratto come concessione (e, quindi, PPP): il che rende ragione della indispensabilità di una attenta definizione del piano economico finanziario (P.E.F.), strumento indispensabile per verificare la concreta capacità del concorrente di eseguire correttamente la prestazione per l’intero arco temporale prescelto attraverso la responsabile prospettazione di un equilibrio economico-finanziario del contratto stesso, “intendendosi per tale la contemporanea presenza delle condizioni di convenienza economica e sostenibilità finanziaria”, come precisato dall’articolo 177, comma 5, il quale aggiunge poi che detto equilibrio sussiste “quando i ricavi attesi del progetto sono in grado di coprire i costi operativi e i costi di investimento, di remunerare e rimborsare il capitale di debito e di remunerare il capitale di rischio”.

Infine, rilevante è la previsione di cui all’articolo 177, comma 6, secondo cui non si applicano le disposizioni sulla concessione, ma quelle sugli appalti, se l’ente concedente attraverso clausole contrattuali o altri atti di regolazione settoriale sollevi l’operatore economico da qualsiasi perdita potenziale, garantendogli un ricavo minimo pari o superiore agli investimenti effettuati e ai costi che l’operatore economico deve sostenere in relazione all’esecuzione del contratto”. Con ciò si chiarisce che qualora i criteri di corretta allocazione dei rischi siano violati dalle operazioni contrattuali poste concretamente in essere, le conseguenze sono esclusivamente contabili, dovendo procedersi alla riqualificazione del rapporto negoziale come fonte di indebitamento, restando escluso che ciò determini la nullità del contratto, come in passato sostenuto da una certa giurisprudenza (T.A.R. Sardegna, sez. I, 10 marzo 2011, n. 213).

Con specifico riguardo al project financing, in primo luogo, il codice precisa definitivamente che questo non è un tipo di contratto di PPP, ma una particolare e articolata procedura bifasica – di scelta del progetto e di affidamento del contratto, e oggi di tutti i contratti di PPP (articolo 198, comma 1) –, che si connota – o meglio si connotava, come appresso si dirà - per la peculiarità di essere avviata (solo) su iniziativa degli operatori economici privati (essendo stata espunta la modalità ad iniziativa pubblica, ritenuta del tutto superflua) e di operare sia in relazione a progetti già presenti nel nuovo strumento programmatorio inserito dallo stesso codice sub specie programma triennale delle esigenze pubbliche (cfr. articolo 175, comma 1), sia per iniziative ivi non previste. Ciò è chiarito dalla stessa Relazione di accompagnamento allo schema definitivo del codice: “non si tratta di due tipi contrattuali diversi, come nella struttura dell’impianto codicistico del 2016. È il medesimo contratto di concessione che può essere finanziato, sia in ‘corporate financing’, sia in ‘project financing’”.

Con riferimento alla prima fase, di scelta del promotore di una procedura di finanza di progetto, è pacifico che non si tratti di un modulo di confronto concorrenziale sottoposto al principio delle procedure di evidenza pubblica, quanto piuttosto di uno strumento tramite il quale l’amministrazione definisce di concerto con il privato (o con più operatori economici privati) un obiettivo di interesse pubblico da realizzare, tanto che può sempre decidere di non dare corso alla procedura di gara per l’affidamento del contratto. Tuttavia, la giurisprudenza aveva ritenuto non casuale e significativa la scelta, espressa già dall’articolo 183, comma 15, del codice del 2016, di sottolineare che tale valutazione preliminare avesse a oggetto non solo la “convenienza”, ma anche la “fattibilità” dell’intervento, in modo da consentire anche – ove ne ricorressero le condizioni (in particolare, proprio con riguardo a interventi già inseriti nella programmazione triennale) – un maggiore approfondimento dei profili tecnici delle proposte pervenute dagli operatori privati, oltre che della loro generica coerenza con le esigenze dell’amministrazione e della loro convenienza economica (Cons. Stato. Sez. III, 24 aprile 2024, n. 3747).

Inoltre, con l’originario comma 11 (oggi 16) dell’articolo 193 il codice ha formalizzato anche la prassi assai diffusa dello scouting delle proposte da parte della p.a., attraverso apposito avviso pubblico, prevedendo espressamente la possibilità che queste ultime possano “sollecitare i privati a farsi promotori di iniziative volte a realizzare in concessione, mediante finanza di progetto, interventi inclusi negli strumenti di programmazione del partenariato pubblico-privato, di cui all’articolo 175, comma 1” (Ricchi).

In secondo luogo, con riguardo agli investitori istituzionali, una rilevante novità è contenuta nell’originario comma 1 (oggi comma 3) dell’articolo 193, laddove è previsto che questi possano presentare le proposte “salva la necessità, nella successiva gara per l’affidamento dei lavori o dei servizi, di associarsi o consorziarsi con altri operatori economici in possesso dei requisiti richiesti dal bando, qualora gli stessi ne siano privi. Gli investitori istituzionali e gli altri operatori economici interessati, in sede di gara, possono soddisfare la richiesta dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale avvalendosi, anche integralmente, delle capacità di altri soggetti” (dunque essi non solo possono rimandare alla fase successiva della gara la propria qualificazione, ma possono farlo anche come concessionari stand alone, senza dover necessariamente associarsi in r.t.i. con i costruttori e gestori). è previsto poi che i medesimi soggetti “possono altresì impegnarsi a subappaltare, anche integralmente, le prestazioni oggetto del contratto di concessione a imprese in possesso dei requisiti richiesti dal bando, a condizione che il nominativo del subappaltatore sia comunicato, con il suo consenso, all’ente concedente entro la scadenza del termine per la presentazione dell’offerta” (e la permanenza di tale obbligo di comunicazione in fase di offerta è stata criticata in dottrina, siccome costituente un non necessario vincolo alla auto-organizzazione dell’operatore economico).

In terzo luogo, va segnalato il criticabile arretramento compiuto dal legislatore rispetto al testo proposto dal Consiglio di Stato, con particolare riferimento alla soluzione da questo indicata con riferimento ad uno dei principali problemi che affligge il modulo della finanza di progetto, costituito dalla previsione del diritto di prelazione a favore del promotore, spesso di ostacolo, nella pratica, alla partecipazione di altri operatori alla seconda fase della procedura. La Commissione, per ovviare a tale effetto, aveva inserito, quale alternativa al diritto di prelazione, la possibilità di riconoscere al promotore un punteggio premiale (c.d. sistema alla cilena), da riferirsi anche al valore innovativo del progetto stesso, nella consapevolezza che nessuna opzione è comunque priva di difetti, atteso che anche questa, pur incentivando la partecipazione e la qualità progettuale, comporterebbe inevitabilmente un generale aumento dei costi.

Sarebbe stato certamente preferibile consentire alla stazione appaltante la ponderazione fra detti interessi in concreto, avuto riguardo alle peculiarità dell’opera oggetto del progetto, piuttosto che escludere ex lege la stessa possibilità di ricorrere a tale modalità alternativa di valorizzazione della posizione del promotore. La scelta di rinunciare a questo come ad altri meccanismi di flessibilità potrebbe avere ricadute perniciose sull’efficacia e sulla stessa attrattività delle procedure di project financing, soprattutto alla luce della recente giurisprudenza che esige che nella fase concorrenziale successiva all’individuazione del promotore le proposte progettuali avanzate dagli altri concorrenti siano identiche a quella formulata da quest’ultima anche quanto ai contenuti tecnici, oltre che ai profili economici (Cons. Stato, sez. V, 24 ottobre 2023, n. 9210); una conclusione che appare ineluttabile per come è motivata con richiamo alla necessità di rispettare i fondamentali principi europei dell’evidenza pubblica, ma che proprio per questo avrebbe richiesto al legislatore un maggiore sforzo di fantasia.

Ancor più di recente, a conferma della serietà di questo nodo problematico, il Consiglio di Stato ha sollevato dinanzi alla Corte di giustizia dell’UE la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità delle previsioni sul diritto di prelazione a favore del promotore con i principi eurounitari di libertà di stabilimento e libera prestazione dei servizi, oltre che con la direttiva 2014/23/UE e con l’articolo 12 della direttiva 2006/123/CE (Cons. Stato, sez. V, ord. 25 novembre 2024, n. 9449).

4. Rispetto al quadro fin qui tratteggiato, le modifiche introdotte dal recente correttivo (d.lgs. n. 209/2024) sono estremamente rilevanti, ma – almeno a detta dei primi commentatori – non necessariamente foriere di soluzioni ai problemi esistenti, e anzi forse suscettibili di determinare l’insorgere di ulteriori criticità applicative.

In via generale, il correttivo non sembra aver voluto operare sostanziali “retromarce” rispetto all’innovativa impostazione impressa dal Consiglio di Stato alla regolamentazione della materia. Ad esempio, con integrazione aggiunta al comma 1 dell’articolo 174, si è precisato che l’affidamento dei contratti di PPP può avvenire anche “nelle forme della finanza di progetto”. Con ciò, il legislatore sembra aver voluto introdurre un coordinamento più chiaro tra PPP e PF, ribadendo che la finanza di progetto è una forma particolare di concessione e quindi è anch’essa ascrivibile al genus del PPP.

Di poi, come detto, si è assistito a una integrale sostituzione dell’articolo 193, il cui attuale comma 1 reintroduce, a fianco al PF a iniziativa privata, quello a iniziativa pubblica, limitatamente alle proposte incluse nella programmazione di cui all’articolo 175, comma 1.

Una seconda importante novità, inserita al comma 2 dell’art. 193, codificando una fattispecie già diffusa nella prassi e suggerita dall’ANAC, è la previsione di una fase preliminare di manifestazione di interesse”, obbligatoria per le amministrazioni pubbliche e facoltativa per il Promotore. Il Promotore può, infatti, tramite la presentazione della “manifestazione di interesse”, richiedere le informazioni ed i dati necessari per la formulazione della stessa: qualora l’ente concedente ritenga sussistere un interesse pubblico alla propostatrasmette all’operatore le informazioni richieste e ne dà notizia sul proprio sito istituzionale, a beneficio di altri eventuali operatori interessati a loro volta a proporre proposte (cc.dd. Proponenti).

I commi 3, 4 e 5 introducono rilevanti novità nella fase di valutazione della proposta. Volendo riassumerle, si potrebbe dire che con esse è de facto anticipato a tale fase il momento comparativo rispetto a quello dell’espletamento della procedura di gara: infatti, è stabilito che, previa verifica dell’interesse pubblico alla proposta e della relativa coerenza con la programmazione di cui all’articolo 175, comma 1, l’ente dia notizia nella sezione “Amministrazione trasparente” del proprio sito istituzionale della presentazione della proposta e provveda a indicare un termine, non inferiore a sessanta giorni, commisurato alla complessità del progetto, per la presentazione da parte di altri operatori economici, in qualità di proponenti, di proposte relative al medesimo intervento (comma 4) e che fra le proposte pervenute ne siano individuate una o più di una, “in forma comparativa, sulla base di criteri che tengano conto della fattibilità delle proposte e della corrispondenza dei progetti e dei relativi piani economici e finanziari ai fabbisogni dell’ente concedente”, per la sottoposizione alla successiva valutazione (comma 5). Se da un lato tale novità sembra avere il pregio di ridurre l’asimmetria informativa tra l’ente concedente e gli operatori economici, dall’altro potrebbe disincentivare potenziali promotori dall’investire risorse nell’elaborazione di un progetto che non venendo selezionato, precluderebbe loro il recupero dei costi sostenuti.

Ulteriore elemento di novità circa la proposta del promotore è la previsione di un progetto di fattibilità più snello rispetto alle previsioni generali, al fine di ridurre le tempistiche e i costi di predisposizione. è evidente l’intento del legislatore di mitigare i rischi a cui sono esposti i promotori, riducendo i costi e gli sforzi nell’elaborare le proposte, ma ciò potrebbe comportare ricadute allo stato non quantificabili sulle finanze pubbliche: infatti, se da un lato potrebbero ridursi significativamente i tempi e i costi di predisposizione del progetto di fattibilità, dall’altro, poiché un progetto di fattibilità più snello comporta inevitabilmente il posticipare valutazioni più accurate ad una fase successiva, ciò potrebbe comportare un’incertezza iniziale sui costi reali dell’opera e ritardi in fase esecutiva per possibili profili di vaghezza o superficialità della progettazione.

Con riguardo alla valutazione delle proposte, il comma 6 prevede che l’ente concedente, individuate una o più proposte di interesse pubblico, le sottoponga a valutazione di fattibilità, con facoltà di convocare una conferenza di servizi ai sensi dell’articolo 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241. All’esito della procedura comparativa, o le proposte sono respinte con provvedimento motivato, oppure viene posto a base di gara il progetto di fattibilità selezionato, secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa: potrà trattarsi a seconda dei casi, del progetto di fattibilità originariamente presentato dal promotore oppure di quello di un altro Proponente. Questa fase comparativa, non presente nella precedente formulazione, se da un lato favorisce indubbiamente la concorrenza, dall’altro comporta un indubbio allungamento dei tempi e può favorire l’instaurazione di contenziosi, e dunque ulteriori ritardi.

In sede consultiva, il Consiglio di Stato ha preso atto che questa scelta di forte procedimentalizzazione della fase preliminare di individuazione della proposta da sottoporre a valutazione è stata motivata, oltre che con la necessità di rispettare gli impegni assunti nel PNRR e incentivare ulteriormente l’uso del PF, sulla base dei rilievi sollevati dalla Commissione europea con la procedura d’infrazione INFR (2018)2273. “Non conformità del diritto italiano alle Direttive 2014/23/EU, 2014/24/EU and 2014/25/EU, e agli articoli 49 e 56, TFUE”, mediante l’introduzione di specifiche disposizioni che mirano ad assicurare la trasparenza e la pubblicità durante la procedura di selezione delle proposte di progetto di fattibilità (Cons. Stato, comm. spec., parere 2 dicembre 2024, n. 1463). Il Consiglio di Stato sottolinea di non aver potuto prendere visione dei rilievi in questione, e in effetti nell’ambito della procedura d’infrazione in questione non risulta fossero state sollevate contestazioni in ordine a questo specifico punto della legislazione nazionale; è probabile che le innovazioni in esame siano intese, più che a far fronte a problemi esterni, a risolvere problematiche interne insorte in giurisprudenza proprio in relazione alla prassi di alcune amministrazioni di sollecitare il mercato attraverso avvisi pubblici, rendendoli però così dettagliati anche in relazione alle caratteristiche tecniche delle proposte da presentare da trasformare la fase de qua in una vera e propria procedura comparativa (cfr. la già citata Cons. Stato, n. 3747/2024).

Per il resto, nulla essendo cambiato nella disciplina della procedura di evidenza pubblica, vanno evidenziate le rilevanti novità apportate alla disciplina del diritto di prelazione, che oggi si applica al promotore o al proponente il cui progetto di fattibilità sia stato selezionato e posto a base di gara. In tal modo il promotore o il proponente, che non dovesse risultare aggiudicatario, potrà esercitare, entro 15 giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, il diritto di prelazione e divenire aggiudicatario alle medesime condizioni offerte dal miglior offerente; quest’ultimo avrà, tuttavia, diritto al pagamento da parte del promotore o del proponente dell’importo delle spese documentate ed effettivamente sostenute per la predisposizione dell’offerta, nel limite del 2,5% del valore dell’investimento, come risultante dal progetto di fattibilità posto a base di gara. Se il promotore o il proponente non esercita la prelazione, invece, sarà lui ad avere diritto al pagamento, da parte del miglior offerente, delle spese sostenute per la predisposizione della proposta, sempre nei limiti di cui sopra.

Con l’estensione della prelazione anche ai proponenti, il legislatore sembra aver cercato di favorire la concorrenza e così fugare i dubbi di compatibilità eurounitaria dell’istituto sollevati dal Consiglio di Stato con la già richiamata questione pregiudiziale. Tuttavia, se si considerano le peculiarità del mercato italiano e la scarsa fortuna che il PF ha finora incontrato, sorge il dubbio che la strada scelta sia quella giusta.

Volendo però prescindere da valutazioni economiche e restringere il campo a riflessioni giuridiche, fino ad oggi il riconoscimento in capo al solo promotore del diritto di prelazione poteva essere letto come un riconoscimento dei diritti dell’ingegno che gli sarebbero spettati per aver presentato per primo l’idea progettuale. D’altra parte, se è vero che da tempo si registra una “dialettica” tra l’istituto nazionale della prelazione e l’ordinamento europeo in materia di evidenza pubblica, è del pari vero che, solo poco più di un anno fa, in sede di redazione del codice, la prelazione aveva trovato piena conferma, con l’autorevolissimo avallo di specifici passaggi della Relazione illustrativa ove la scelta di confermare in seno alla legislazione in materia di partenariati pubblico-privati il diritto di prelazione (in luogo o anche solo al fianco di altri sistemi premiali pur possibili) era stata preferita proprio per non incorrere nel rischio – che la prelazione si era ritenuto di per sé non provocasse – di “generare effetti distorsivi sul mercato inibendo la partecipazione di molti operatori economici alle forme di partenariato pubblico privato”.

In conclusione, l’intento del legislatore di aderire maggiormente ai principi concorrenziali europei è apprezzabile, ma le sfide permangono: la nuova procedura potrebbe risultare non solo più lunga e complessa, ma anticipando il rischio di contenzioso già nella fase preliminare di valutazione comparativa delle proposte concorrenti, meno efficace. Nell’ottica del legislatore tali rischi dovrebbero essere bilanciati adeguatamente dalla previsione di un progetto di fattibilità più snello, ma solo l’applicazione pratica sarà in grado di confermare o smentire tale convinzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] In effetti, lo sviluppo del PF in senso moderno inizia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso nel Regno Unito, come pratica economica prima ancora che come istituto giuridico.

[2] L’enfasi è nostra.

[3] Relazione speciale n. 9/2018 (“Partenariati pubblico-privato nell’UE: carenze diffuse e benefici limitati”).