Struttura e funzioni del collegio consultivo tecnico, a valle del Correttivo - Intervento del Presidente Diego Sabatino, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato

Struttura e funzioni del collegio consultivo tecnico

A valle del correttivo

1. Il Collegio consultivo tecnico dopo il correttivo

Nella contrattualistica pubblica dell’ultimo lustro, l’introduzione e i successivi sviluppi dell’istituto del collegio consultivo tecnico (CCT) rappresentano alcune delle novità di maggior interesse, ma anche di minore linearità.

Secondo il codice attuale, il CCT ha il compito esplicito di “prevenire le controversie o consentire la rapida risoluzione delle stesse o delle dispute tecniche di ogni natura che possano insorgere nell'esecuzione dei contratti” (art. 215 comma 1), ma l’ipotesi che questo singolare collegio arbitrale svolga unicamente una funzione giustiziale nella fase di esecuzione dell’appalto si scontra con una ricostruzione più completa del sistema, che lo vede cumulare in sé una pluralità di compiti. Si è infatti in presenza di un istituto poliedrico, polifunzionale ed è proprio questa duttilità a suscitare l’interesse ed attenzione nei pratici. È strumento dedito unicamente alla ratio di anticipazione e risoluzione delle controversie? Può servire a mediare tra le parti? Ha anche una funzione consulenziale più ampia?

Il CCT è istituto giovane e nelle quattro tappe della sua evoluzione ha assunto consistenza e fondamenti diversi.

Apparso e poi scomparso in maniera repentina tra il 2016 e il 2017, ha una seconda vita grazie al decreto semplificazioni[1], dove assume pienezza e rilevanza, con compiti di adozione di pareri su fatti determinati (sospensione, volontaria o coattiva, dell'esecuzione di lavori diretti alla realizzazione delle opere pubbliche; risoluzione del contratto) “nonché di rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell'esecuzione del contratto stesso”.

È tuttavia il codice attuale[2] a darne una veste compiuta, precisando nella relazione illustrativa (pag. 250) che il CCT si pone come “rimedio generale per dirimere sul nascere i possibili contenziosi tra committente e appaltatore che rischierebbero di pregiudicare l’esecuzione tempestiva e a regola d’arte del contratto di appalto”. Ne viene rivista la natura e sistematizzata la disciplina, facendo tesoro peraltro delle introdotte Linee guida MIMS[3], ma, soprattutto, viene posta in evidenza la novità dell’istituto, che si rifà ad esperienza di diversa cultura giuridica, in particolare il c.d. Dispute Review Board noto alla contrattualistica anglosassone, espressamente utilizzato per accompagnare lo sviluppo dell’appalto sin dall'inizio dell’esecuzione finalizzato così da affrontare e risolvere in modo rapido, efficace ed economico tutte le tipologie di problemi che potrebbero influenzare, bloccandoli o ritardandoli, i lavori, evitando contemporaneamente il ricorso al processo, sia in un’ottica di decongestionamento come pure di maggior efficienza del sistema stesso[4].

Il correttivo[5] si è quindi trovato davanti un istituto maturo, o quanto meno consolidato, e ha potuto così sorvolare sui problemi costruttivi e soffermarsi a “risolvere le criticità evidenziate”, “proporre soluzioni concrete alle stazioni appaltanti e agli operatori economici” e “assicurare certezza nei rapporti giuridici”, come afferma la relazione illustrativa (p. 15). Nonostante questo obiettivo, ambizioso ma sicuramente di minor spessore dei precedenti, l’impatto della riforma del 2024 è stato massiccio, tanto che: a) sono state introdotte modifiche in quasi tutte le disposizioni sul CCT contenute nel libro V del codice, visto che il solo art. 218, relativo al CCT facoltativo, non è stato inciso; b) è stato sostituito integralmente l’All. V.2, lasciando in piedi le previgenti Linee guida MIMS per la sola parte relativa alla determinazione dei compensi in attesa e comunque fino all’adozione delle nuove; c) ha introdotto, tramite l’art. 70, il nuovo art. 225-bis, comma 5 del codice, dove viene predisposto un meccanismo per cui “Le disposizioni di cui agli articoli da 215 a 219 e all’allegato V.2, … si applicano, in assenza di una espressa volontà contraria delle parti, anche ai collegi già costituiti ed operanti alla medesima data, ad eccezione di quelli relativi ai contratti di servizi e forniture già costituiti alla data di entrata in vigore della presente disposizione”.

Di fatto uno stravolgimento che, come si vedrà, ha modificato il fondamento dell’istituto stesso.

Queste note si collocano a valle di tale ultimo intervento con l’intento di coglierne la trasformazione indotta nel CCT. Di tale novità il legislatore ha implicitamente riconosciuto la rilevanza con la disposizione transitoria sopra esaminata, quella dell’art. 225 – bis del codice, che sposta sulle parti interessate la scelta di adottare o meno la disciplina sopraggiunta. Per altro verso, proprio i soggetti interessati, stazioni appaltanti e imprese, ne hanno parimenti colto la portata, in parte sorprendente, tant’è che nelle prime applicazioni vi è stato spazio a letture opposte della sua praticabilità e quindi ad adesioni con molti distinguo, come pure a soluzioni differenziate per oltrepassare l’impasse dell’espressione della volontà[6].

Più che una completa disamina dell’istituto come innovato, si metteranno dunque a fuoco alcune ragioni che lo innervano e le criticità che ne scaturiscono, raggruppando queste osservazioni intorno ad un ridotto numero di concetti chiave. Si tratta di aspetti che individuano la ratio più profonda dell’istituto e che possono essere fondamentalmente riassunte in cinque concetti: 

- la decisività, ossia l’attitudine del CCT a produrre decisioni in grado di incidere sullo sviluppo dell’attività e della realizzazione dell’opera;

- l’esaustività, ossia il grado di completezza della cognizione del CCT sulle vicende del contratto;

- la qualità, ossia la capacità di ben adattare il regolamento contrattuale alle dinamiche dell’esecuzione e delle sue spesso imprevedibili vicende (sorprese, mutamenti di mercato, ecc.);

- la celerità, ossia la vicinanza temporale tra il sorgere dell’evento critico e la sua soluzione, di qualunque tipo questa sia;

- l’economicità, ossia la complessiva sostenibilità della spesa per la gestione del CCT in raffronto ad altre soluzioni proposte dall’ordinamento, dove il concetto di spesa assorbe ogni valore patrimonialmente valutabile, non ultimo il tempo della decisione.

Una ricostruzione completa dell’istituto ha spazi per inserire l’intera disciplina in questi cinque ambiti. In questa sede ci si limiterà a porre in evidenza gli aspetti più significativi per il tema qui vagliato, ossia il mutamento funzionale dell’istituto a seguito delle modifiche introdotte dal correttivo.

2. La decisività

L’attitudine a porre in essere decisioni, e quindi a risolvere liti, in atto o potenziali, è il vero elemento legittimante, la ratio essendi, del CCT. Ecco perché gli studi, soprattutto civilistici, analizzano prioritariamente la clausola compromissoria su cui questo potere si fonda; ecco perché gli aspetti organizzativi o procedurali ne sono influenzati e ruotano intorno a questa, unica ragione giustificativa dell’istituto.

Lo strumento tramite il quale questa decisione viene adottata è il lodo contrattuale, ossia l’esito del procedimento di cd. arbitrato irrituale, attualmente disciplinato dall’art. 808 – ter c.p.c.[7] ma preesistente nella pratica in quanto espressione dell’autonomia contrattuale delle parti.

Il lodo contrattuale interviene nella disciplina negoziale, come esito della ulteriore volontà delle parti, e integra il regolamento contrattuale originariamente previsto pattiziamente; non ha attitudine a sostituire la sentenza, come avviene invece con il lodo emesso a seguito dell’arbitrato rituale, e non può diventare esecutivo; ha un regime di impugnabilità in parte ricalcato dalla disciplina dell’arbitrato rituale[8].

È un istituto intrinseco all’autonomia privata e, proprio per questo, è stato visto con disfavore dalla giurisprudenza, sia civile che costituzionale, nella sua applicazione alla contrattualistica pubblica, sulla base di una serie di elementi che possono essere sintetizzati in due punti. In primo luogo, per la difficoltà di conciliare l’estrema libertà nella costruzione del procedimento arbitrale con la generale procedimentalizzazione dell’attività pubblica. In secondo luogo, per la necessaria tutela dell’autonomia privata, ostile ad una predeterminazione che determini la costrizione della volontà delle parti negoziali[9].

Il legislatore doveva quindi muoversi entro questi confini per disciplinare il potere decisionale del CCT.

La soluzione adottata ha carattere procedimentale, in quanto il percorso per giungere ad una decisione avente il valore di lodo contrattuale, sulla base del correttivo, si articola ora in due passaggi successivi, dai quali pare emergere una lettura stringente del limite costituzionale all’arbitrato obbligatorio e un tendenziale abbattimento della funzione giustiziale del CCT.

Il primo profilo attiene alla scelta di attribuire il valore di determinazione alla decisione del CCT.

L’art. 216, comma 1 prevede che per aversi determinazione, ossia la tipologia decisoria del CCT suscettibile di diventare lodo, deve esservi “concorde richiesta delle parti”. Si tratta di una innovazione che si scontra con quella che finora era stata la disciplina generale, contenuta unicamente nell’allegato V.2, che sia nella versione previgente che in quella attuale esclude la necessità di una volontà concorde delle parti, bastando semplicemente la richiesta anche di una sola delle parti (“Il procedimento per l’espressione dei pareri o delle determinazioni del CCT può essere attivato da ciascuna delle parti o da entrambe congiuntamente”, art. 4, comma 1). Parrebbe quindi sussistere una discrasia tra la disciplina generale dell’allegato e quella particolare (ma in concreto estremamente estesa) di cui all’art. 216 che, in concreto, diventerebbe davvero la disposizione di maggiore applicabilità, imponendo la volontà congiunta delle parti in quasi tutti i casi.

Questo aggravamento dei casi in cui è possibile giungere ad una determinazione appare abbastanza perplesso, proprio in funzione delle ragioni giustiziali che reggono il CCT e che, di fatto, viene posto in condizioni di non operare tramite un sistema che attribuisce a ciascuna parte un vero e proprio potere di veto.

Il secondo aspetto attiene alla scelta legislativa di un’ulteriore richiesta perché la determinazione assuma un valore arbitrale. Qui il legislatore ha fatto proprio il tema della conseguenzialità dei due passaggi, in modo che, una volta intervenuta “su concorde richiesta delle parti” la determinazione del collegio, è necessario che le parti “altresì” convengano di attribuire a tale determinazione la natura di lodo contrattuale (art. 216 comma 1)[10].

È vero che si potrebbe tentare una interpretazione evolutiva del sistema, giocando su alcune declinazioni al singolare al plurale dei vari termini impiegati, oppure ci si potrebbe appoggiare su alcune discrasie redazionali (ad esempio nello stesso art. 216, co. 4, quando si parla del parere obbligatorio sulle sospensioni per gravi ragioni tecniche, si legge che “In tal caso la pronuncia assume l'efficacia di lodo contrattuale solo se tale possibilità non sia stata espressamente esclusa ai sensi di quanto disposto dall'articolo 217”, facendo riapparire la regola della non necessarietà della volontà congiunta). Tuttavia, tutto il senso complessivo della disciplina va proprio nella direzione di subordinare, volta per volta, ad una doppia espressione della volontà delle parti l’obiettivo finale utile del raggiungimento del valore di lodo arbitrale.

La prudenza del legislatore ha un senso, collegato al tema della legittimità del lodo, atteso che, secondo un modo ormai consolidato, l'art. 217, comma 3, prevede che “Le determinazioni aventi natura di lodo contrattuale sono impugnabili nei casi e nei modi indicati dall'articolo 808 - ter, secondo comma, del codice di procedura civile”[11].

Per evitare quindi una possibile invalidità della determinazione, è necessario che vi sia una chiara ed espressa dichiarazione di volontà di ambedue le parti sul punto, che tale espressione sia stata documentata e, soprattutto, che tale volontà sia stata liberamente assunta. In questo senso, la Corte costituzionale, chiamata in più occasioni a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’arbitrato obbligatorio, ha sempre precisato che “anche qualora sia richiesto l'accordo delle parti per derogare alla competenza arbitrale, si rimette pur sempre alla volontà della sola parte che non voglia tale accordo derogatorio, l'effetto di rendere l'arbitrato concretamente obbligatorio per l'altro soggetto che non l'aveva voluto”, in quanto in tal modo sarebbe “sufficiente la mancata intesa sulla deroga della competenza arbitrale per vanificare l'apparente facoltatività bilaterale dell'opzione”[12].

Tuttavia, il tema dell’obbligatorietà appare considerato dal correttivo in modo opinabile, visto che la stessa Corte costituzionale, peraltro nella medesima sentenza, ha evidenziato che “la legislazione potrebbe ancora evolversi tenendo conto, oltre che del coordinamento con la legislazione comunitaria, del principio essenziale della effettiva libera volontà di ciascuna parte sulla scelta della competenza nei casi in cui il contratto sia predisposto dalla pubblica amministrazione.”

Facendo applicazione esplicita del ragionamento costituzionale, una recente sentenza ha vagliato il tema dell’arbitrato obbligatorio, escludendo che questo sussistesse quando la clausola compromissoria sia stata imposta unicamente in carico alla PA che aveva predisposto la convenzione in cui era inserita. Ciò nella logica per cui “l'asimmetria della facoltà declinatoria è quindi razionale e giustificata con la scelta a monte adottata dalla parte pubblica”[13].

Detto in altro modo, se la legge avesse obbligato le stazioni appaltanti all’arbitrato, imponendo uno schema standard di modulo organizzativo e decisionale (che è poi in parte quello che è stato fatto nelle concessioni per concorsi pronostici, vicenda vagliata nella sentenza appena citata), lasciando invece alla sola impresa la possibilità di non aderire, non si sarebbe ricaduti nell’arbitrato obbligatorio, lasciando così spazio a soluzioni più aderenti alle necessità imprenditoriali (è infatti facilmente ipotizzabile che il soggetto più interessato alla celere risoluzione del contenzioso sia l’impresa, che deve confrontarsi con le dinamiche del mercato e, tra le altre, con il tema delle procedure fallimentari).

In concreto, nella scelta operata dal correttivo, appaiono sovrapposti, se non confusi, i due diversi ruoli del CCT: da un lato, la funzione pubblicistica, ossia quella tesa alla realizzazione del principio del risultato nella fase esecutiva; dall’altro, quella privatistica, ossia della funzione arbitrale[14].

Sul primo profilo, il legislatore interviene liberamente, trattandosi di regolamentare vicende organizzative legate alle ragioni di gestione della contrattualistica pubblica; sul secondo profilo, appare necessario garantire la volontarietà delle parti, ma questa, come avviene in ogni vicenda arbitrale, è sufficientemente tutelata, pure in una serialità di interventi, quando l’opzione sia manifestata congiuntamente e liberamente anche solo nella fase iniziale, che nel caso in esame corrisponderebbe al momento costitutivo del CCT. A tal proposito, va ricordato che la pratica riscontra altri casi di predeterminazione a monte dei modi di risoluzione per arbitri: si pensi agli arbitrati amministrati (quelli delle Camere di commercio, ad esempio) oppure agli arbitrati nei gruppi organizzati (si pensi alla giustizia sportiva) dove non si discute neppure della volontarietà[15].

Per questo, a un’impostazione che valorizzi la decisione unica iniziale, pare aderire l’art. 3, comma 3, dell’Allegato V.2, che prevede che “Nel verbale della seduta d’insediamento, ..., se le parti non si siano avvalse della facoltà di escludere che le determinazioni del Collegio assumano natura di lodo contrattuale, sono precisati termini e modalità di svolgimento del contraddittorio, specificando il dies a quo della decorrenza del termine di quindici giorni per la pronuncia del lodo”, fermo rimanendo, come talvolta accade, che in quella sede le parti potrebbero articolare la loro posizione in maniera differenziata.

Concludendo su questo primo snodo, è evidente come il legislatore, forse per prudenza, abbia di fatto depotenziato il lato privatistico del CCT, quello mirato alla soluzione delle controversie con valore di lodo perché, si è puntualmente notato[16], “se la scelta arbitrale deve essere sempre ‘ribadita’, tanto varrebbe, anche per evitare condotte opportunistiche delle parti, dire con chiarezza che nessuna scelta per l’arbitrato (o meno) è assunta ab origine”, perché, in fondo, ha davvero senso costruire un sistema obbligatorio, in cui si costituisce un collegio destinato alla risoluzione delle controversie, quando poi le parti possono semplicemente decidere di non farne uso?

3. L’esaustività

Il tema dell’esaustività riguarda le dimensioni della cognizione e l’ampiezza delle attribuzioni del CCT, sia inteso in senso orizzontale, come raggio d’azione in cui si muove, sia in senso verticale, come profondità d’intervento, avendo riguardo alle diverse tipologie di decisioni emanate dal Collegio.

Sebbene anche le prime questioni appaiano interessanti (quanto meno come traccia di un’evoluzione che ha portato da una totale facoltatività dell’istituzione del CCT ad una sua intrinseca cogenza con una specificazione delle concrete attribuzioni) è l’ultimo profilo ad apparire più significativo, nel senso ricostruttivo qui oggetto di disamina.

Il punto focale è nella riscrittura dell’art. 216 che l’art. 63 del correttivo ha ampiamente modificato fin dalla rubrica, prima recante “Pareri obbligatori” e ora “Pareri e determinazioni obbligatorie”. Nella formulazione originaria, l’acquisizione del parere era imposta nei soli casi di sospensione, volontaria o coattiva, dell’esecuzione. Dopo la modifica, il comma 1 dell’art. 216 prevede che “Nei casi di iscrizione di riserve, di proposte di variante e in relazione ad ogni altra disputa tecnica o controversia che insorga durante l’esecuzione di un contratto di lavori di importo pari o superiore alle soglie di rilevanza europea, è obbligatoria l’acquisizione del parere o, su concorde richiesta delle parti, di una determinazione del Collegio”.

Questa previsione è poi completata: nello stesso comma, dalla precisazione che “Se le parti convengono altresì che le determinazioni del collegio assumono natura di lodo contrattuale ai sensi dell’art. 808-ter del codice di procedura civile, è preclusa l’esperibilità dell’accordo bonario per la decisione sulle riserve”; e nel successivo comma 2, dalla previsione che “L'acquisizione del parere è obbligatoria nei casi di risoluzione contrattuale”.

In pratica, il CCT si esprime su tutte, ma davvero tutte, le vicende rilevanti della fase di esecuzione, ed è questo ampliamento di attribuzioni che sta dando vita alle maggiori difficoltà applicative, per ognuna delle vicende rilevanti.

In tema di riserve, si ricade in un istituto ben noto e ampiamente vagliato dalla giurisprudenza, che da sempre ne evidenzia la funzione non surrogabile di unico strumento per contestare la contabilità tenuta dalla stazione appaltante[17]. Pertanto, il correttivo ha unicamente confermato l’obbligo di iscrizione delle medesime nel rispetto della disciplina vigente (art. 4, comma 1, secondo periodo, All. V.2) come pure la pregressa disposizione secondo cui “Se l’appaltatore, al fine di non incorrere in decadenze, iscriva riserve senza formulare anche il relativo quesito al CCT, il quesito deve essere formulato dal responsabile del procedimento se la riserva è tale da incidere sulla regolare esecuzione dei lavori” (art. 4, comma 1, ultimo periodo, All. V.2; già presente al punto 4.1.3., secondo periodo, delle abrogate Linee guida M.I.M.S.).

Tuttavia, la previsione così tranciante della obbligatorietà del parere del CCT si scontra con la prassi comune della risoluzione diretta ad opera del RUP del maggior numero di questioni, soprattutto quelle di minori rilevanza nella gestione della vita di cantiere, con un conseguenziale aggravamento procedurale che appare disfunzionale rispetto alla più volte vantate esigenze di celerità.

Per altro verso, non viene sciolto il nodo delle eventuali conseguenze del mancato rispetto da parte del RUP dell’obbligo di formulare il quesito in vece dell’appaltatore inadempiente (possibili solo dal punto di vista interno della stazione appaltante o, al limite, in tema di responsabilità erariale, visto che non vi sono poteri officiosi del Collegio che “In nessun caso il CCT si può pronunciare in assenza dei quesiti di parte”, pena la nullità delle determinazioni eventualmente assunte - art. 4, comma 1, quarto periodo, All. V.2).

In tema di proposte di variante, l’acquisizione obbligatoria del parere del CCT è di certo un momento nuovo di particolare spessore. Anche in questo caso, paiono delinearsi momenti di sovrapposizione tra le nuove attribuzioni del CCT e i poteri di impulso spettanti al RUP e al direttore dei lavori ma, soprattutto, non è dato coglierne l’utilità quando il meccanismo di adeguamento sia normativamente imposto[18].

In tema di risoluzione contrattuale, si verte ancora in una estensione innovativa. L’unica certezza evincibile dal testo è quella per cui, in assenza della pronuncia del Collegio, le parti non potranno disporre la risoluzione del contratto (sebbene sia difficile immaginare come una eventuale azione in tal senso potrebbe essere contrastata). Per come è formulata, la previsione pare valere, anche se probabilmente esorbitante, anche per la risoluzione di diritto.

Infine, in tema di obbligatorietà del parere in merito ad ogni altra disputa tecnica o controversia che insorga durante l’esecuzione del contratto, la palese funzione di norma di chiusura viene a scontare la sua estrema genericità, visto che l’elenco precedente pare assorbire l’interezza delle questioni proponibili.

Il sistema delle decisioni va letto compiutamente, unendo le osservazioni svolte sull’art. 216 rimodellato unitamente a quelle relative all’art. 217.

Anche in questo caso, le modifiche iniziano dalla rubrica che reca “Determinazioni facoltative” al posto della precedente “Determinazioni”, ma qui l’ambito di applicazione è palesemente residuale, visto che si prevede che “Quando l’acquisizione del parere o della determinazione non è obbligatoria, le determinazioni del collegio consultivo tecnico assumono natura di lodo contrattuale ai sensi dell’art. 808 - ter del codice di procedura civile se le parti, successivamente alla nomina del Presidente e non oltre il momento dell’insediamento del collegio, non abbiano diversamente disposto. La possibilità che la pronuncia del collegio consultivo tecnico assuma natura di lodo contrattuale è esclusa nei casi in cui è richiesta una pronuncia sulla risoluzione, sulla sospensione coattiva o sulle modalità di prosecuzione dei lavori”. Nel comma 2 si specifica che “Se le parti, ai sensi di quanto disposto dal comma 1, escludono che la determinazione possa valere come lodo contrattuale, la stessa, anche se facoltativa, produce comunque gli effetti di cui al comma 3 dell’articolo 215”.

Tuttavia, anche così costruita, la disposizione appare piuttosto ambigua. Se infatti ricordiamo che la pronuncia del Collegio è, comunque, obbligatoria, giusta il disposto dell’articolo precedente, “in relazione ad ogni altra disputa tecnica o controversia che insorga durante l’esecuzione del contratto”, non è dato capire quale sia lo spazio residuo in cui può agire l’art. 217.

Ad ogni modo, la decisione del Collegio non può comunque avere la natura di lodo contrattuale quando si verte sulla “risoluzione, sulla sospensione coattiva o sulle modalità di prosecuzione dei lavori” (art. 217, comma 1, ultimo periodo). E proprio in relazione alla sospensione coattiva va ricordato che, quando l’intervento del CCT era limitato alle ipotesi di maggior frizione in sede di esecuzione, la sospensione coattiva era proprio uno dei casi di intervento obbligatorio, mentre ora figura all’interno dell’art. 217, ossia tra i casi di intervento facoltativo.

Ricostruito l’ambito decisionale, resta da capire quale potrà essere l’approccio delle stazioni appaltanti e delle imprese, visto che l’estensione delle fattispecie in cui il Collegio è tenuto ad intervenire sta dando adito a reazioni diverse, se non opposte.

Per un verso, alcune posizioni appaiono molto favorevoli. Ad esempio, nel Quaderno ANCI sul correttivo[19], si legge “Il vantaggio consisterebbe, quindi, nel fatto che un organo collegiale, composto da professionisti con competenza specifica nelle materie oggetto di approfondimento, potrebbe sicuramente assistere, e, in alcuni casi, addirittura sostituire il RUP nelle decisioni così delicate come le sopravvenienze contrattuali. In questo modo il collegio potrebbe sostituirsi al RUP nelle decisioni complesse e articolate che comportano una variazione delle condizioni originarie di gara per sopravvenienze con la conseguenza anche di una diversa allocazione dei rischi”.

Si tratta di un approccio ‘entusiasta’, visto tuttavia nella mera ottica dell’esenzione della responsabilità erariale. Il che, se da un lato non rispecchia il dato concreto dell’impatto della responsabilità erariale sui fatti amministrativi e contrattuali in particolari, dall’altro si pone in contrasto diametrale con l’architettura del codice, non solo nella sua formulazione di principi (primi tra tutti quello del risultato e quello della fiducia), ma soprattutto perché pone l’accento su una deresponsabilizzazione del RUP difficilmente sostenibile di fronte a scelte normative che, al contrario, conducono ad una sua sempre maggiore centralità (si pensi al tema, sopra vagliato, dell’obbligo di sottoposizione del quesito a fronte delle riserve iscritte).

Per altro verso, nelle grandi stazioni appaltanti (ANAS, RFI, ecc.) sta prevalendo l’ipotesi di usare, finché possibile, la scappatoia dell’art. 70, comma 5, del correttivo per non applicarne le disposizioni ai contratti in corso. Il timore è proprio in quello che ANCI vede come un modello da seguire, ossia la sostituzione del RUP nell’esercizio delle sue attribuzioni. Per questo, il tema dell’ampliamento delle attribuzioni del CCT, quanto meno sotto forma di parere, che, come si è visto, tocca tutte le questioni che possono insorgere nel corso dell’esecuzione, appare critico, trasformando un organo di ausilio nel vero regolatore delle vicende[20].

Concludendo, in questo secondo snodo si nota forse l’aspetto di maggior pregnanza, ma anche di criticità, dell’intervento del correttivo, in quanto, pur perseguendo il lodevole fine di dare una chiara definizione del profilo pubblicistico del CCT, ne ha modificato la funzione in senso maggiormente consulenziale, insistendo sul suo necessario coinvolgimento in tutte le questioni, più o meno contenziose, della fase esecutiva.

4. La qualità

Il tema della qualità della decisione adottata, ossia l’attitudine delle decisioni a confrontarsi con le dinamiche dell’esecuzione e ad adeguarsi alle spesso imprevedibili vicende (sorprese, mutamenti di mercato, ecc.) che la contraddistinguono, dando vita ad una nuova sistemazione degli interessi in campo, va ben precisato per evitare facile fraintendimenti.

La qualità è vicenda intrinsecamente non valutabile e il legislatore ne è tanto conscio da selezionare attentamente le ragioni della possibile impugnativa del lodo contrattuale, riducendole a fatti esterni al decisum (i limiti della convenzione arbitrale, la composizione del collegio decidente, la procedura, ecc.). Tuttavia questa valutabilità ab externo non esclude, anzi impone, una parallela strategia normativa che, anziché perseguire ipotetici standard contenutistici, si soffermi sulla predisposizione dell’ambiente più favorevole per la corretta espressione della decisione.

In questa cornice ecologica si collocano due diversi tipi di intervento normativo: quella della costruzione dello strumento per la decisione, ossia l’ufficio che provvede alla decisione, con i conseguenti temi della provvista e dello status dei componenti del CCT (presidente e membri), della segreteria e dei rapporti con l’Osservatorio permanente sui collegi consultivi tecnici; e quella della costruzione delle regole per la decisione, che emergono esplicitamente dal codice e implicitamente dalle regole generali valevoli per gli arbitrati irrituali.

Mentre sul primo tipo di questioni si può qui unicamente sottolineare positivamente la particolare attenzione dedicata ai temi della qualità professionale e dell’indipendenza di giudizio dei componenti del CCT, va invece meglio vagliato il tema dei criteri di giudizio, relativo al modo di decidere del collegio, ossia sull’uso in concreto dei propri poteri per giungere a quella “soluzione migliore” di cui parla l’art. 215 comma 2, ultimo periodo, intesa come proiettata sì alla “celere esecuzione” ma a “regola d’arte”.

È da dirsi che in sede esecutiva, lo scontro con la realtà dell’impresa e del mercato rende più ardua l’applicazione quasi meccanica delle regole, come avviene ad esempio nella fase di affidamento, oramai tutelata da una casistica fin troppo dettagliata, e la doppia natura del CCT ben si presta ad essere strumento per giungere ad un’aderenza più stretta alle vicende fattuali. Tuttavia, tale scopo può essere raggiunto solo qualora gli sia consentito di ancorare la propria opera a parametri diversi, giuridicamente posti ma più congrui rispetto alla funzione attribuita.

Questi parametri possono essere individuati nella disciplina codicistica, facendo perno su tre elementi.

Il primo concerne lo scopo dell’azione quando ha il valore di lodo contrattuale e, a maggior ragione, nel caso di parere ed è espresso positivamente dall'art. 215, comma 2. Qui si dice infatti che “l'attività di mediazione e conciliazione è comunque finalizzata alla scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell'opera a regola d'arte”. Il che pone come elemento prioritario della decisione l’interesse alla migliore esecuzione possibile del contratto e la connota in senso teleologico, più che cognitivo.

L’importanza di tale impostazione si coglie in un secondo passaggio, quello dato dalla previsione dell'art. 215, comma 3 (che risuona anche nell'art. 217, comma 2 sui pareri), dove si osserva che “L'inosservanza dei pareri o delle determinazioni del collegio consultivo tecnico è valutata ai fini della responsabilità del soggetto agente per danno erariale e costituisce, salvo prova contraria, grave inadempimento degli obblighi contrattuali. L'osservanza delle determinazioni del collegio consultivo tecnico è causa di esclusione della responsabilità per danno erariale, salva l'ipotesi di condotta dolosa”, previsione poi confortata dal tema delle spese, quando la determinazione del CCT, che la parte non ha condiviso, sia poi convalidata in sede giudiziale. In questo secondo momento si coglie l’eco dei principi posti a monte del codice, soprattutto in tema di risultato e di fiducia, perché impediscono alla stazione appaltante di ritrarsi pur in presenza di decisioni favorevoli alla parte privata.

Il terzo passaggio non è espresso ma si ricava dalla funzione stessa dell’arbitrato irrituale, genus del quale fa parte il pur anomalo potere arbitrale del CCT, che ha una funzione mirata alla composizione del conflitto in via non contenziosa. Come dice la giurisprudenza di legittimità[21], “L'arbitrato irrituale può non limitarsi a cristallizzare, come il negozio di accertamento, una situazione già in essere, comportando piuttosto addizioni alla fattispecie giuridica compromessa. Bisogna, perciò, escludere, da un lato, che l'arbitrato irrituale, alla stregua di una composizione amichevole, importi l'accoglimento di tutte le pretese di una sola parte e, dall'altro, che il medesimo obblighi sempre a procedere ad un aliquid datum, aliquid retentum, come invece implicherebbe una soluzione transattiva”.

A questo ambito decisionale va però posto un limite, derivante dall’ordinamento in generale e dalle fonti unionali. Il limite è quello per cui la decisione non si ponga in contrasto con le norme imperative derivanti dal diritto pubblico, tra le quali spicca, ovviamente, la disciplina della gara, onde evitare la possibilità che questa venga aggirata con modifiche posteriori non consentite (e impugnabili ex art. 217, comma 3, in base al quale “Le determinazioni aventi natura di lodo contrattuale sono impugnabili nei casi e nei modi indicati dall'articolo articolo 808-ter, secondo comma, del codice di procedura civile”[22].

Così vagliata, la disciplina della decisione del CCT appare connotata, da un lato, da un ancoraggio forte con regole espresse di diritto, tali da impedire il ricorso a forme di equità o comunque a decisioni esterne al perimetro della disciplina codicistica; dall’altro, dalla possibilità di disporre di un ventaglio di soluzioni, potendo sceglierne una qualsiasi che si collochi tra i poli, da un lato, della transazione e, dall’altro, del negozio di mero accertamento.

Cosi puntualizzato, il potere decisionale del CCT appare malleabile ed adattabile alla situazione concreta e l’esperienza applicativa ne ha dimostrato l’utilità in alcune vicende (quale l’applicazione meccanica di penali da ritardo, oppure in tema di varianti in sede di esecuzione di un appalto integrato, ecc.) in cui il trascurare l’aspetto teleologico avrebbe determinato una ingiusta ripartizione delle responsabilità contrattuali.

5. La celerità

Il tema della celerità si declina nelle differenti accezioni della partecipazione del CCT alle attività dell’esecuzione come pure nella rapidità dell’assunzione delle decisioni, accezioni che si influenzano reciprocamente, atteso che la prima agevola la seconda.

In questo ambito, la mano del legislatore è stata piuttosto pesante. Per quanto attiene la velocità della decisione, si assiste ad una scansione normativamente rigida dei tempi, tanto che residua in capo alle parti e al collegio solo il modo di gestione del contraddittorio e quindi quello dell’individuazione del momento conclusivo della fase istruttoria. Del pari, tutto il ciclo di vita del CCT, dalla sua costituzione al suo scioglimento, appare direttamente regolato, imponendo anche il questo caso una tempistica stringente.

Ferma restando la valutazione positiva sul tema, che si riferisce all’aspetto pubblicistico (procedurale o organizzativo) del CCT, nell’economia di questa trattazione appare opportuno soffermarsi sull’innovazione data dall’estensione (art. 4, comma 3, ultimo periodo, dell’All. V.2) a tutti i Collegi dell’obbligo di “svolgere riunioni periodiche per monitorare l’andamento dei lavori” e di “formulare, ove ritenuto opportuno, osservazioni alle parti”. Si tratta di una disposizione contenente sia un onere che un potere ed era prima relativa unicamente alle opere comprese o finanziate, in tutto o in parte, nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e del Piano Nazionale Complementare (PNC) (punto 4.1.2. delle Linee guida M.I.M.S.). In merito poi alle modalità di attuazione, spetterà ai singoli CCT stabilire la periodicità delle riunioni, secondo la complessità dei contratti, e a informarne le parti.

Sebbene la modifica miri a consolidare il tema della presenza, ponendo le riunioni periodiche come strumento di aggiornamento sullo sviluppo dell’esecuzione, resta ancora da chiarire quale siano i diversi oneri derivanti dalla formulazione delle osservazioni da parte del Collegio alle parti, anche in relazione alla possibile violazione di queste ad opera delle parti[23].

Tuttavia, nonostante le dette criticità, la disposizione ha un valore ricostruttivo forte.

Tenuta ferma dal legislatore nonostante il parere contrario del Consiglio di Stato (che ne aveva chiesto l’espunzione in quanto “distonica rispetto alla funzione di carattere decisorio dell’organo” in grado di “snaturarne la natura giustiziale”[24]) la disposizione dimostra lo spostamento dell’asse concettuale, per cui il CCT non è più solo uno strumento giustiziale ma si dimostra un vero e proprio consulente ex lege delle parti nell’esecuzione contrattuale. Anzi, viste le difficoltà di arrivare ad una decisione avente valore di lodo, si può ben dire che questo secondo profilo, quello consulenziale, assuma un’importanza prevalente nell’economia dell’istituto.

6. L’economicità

Resta infine il tema dell’economicità che, in senso positivo, è espresso unicamente dalle regole in tema di compenso per i componenti del CCT. Il correttivo ha precisato (art. 1, comma 4, dell’All. V.2) come debba essere quantificata la parte fissa del compenso del Collegio (e non del compenso spettante ai singoli componenti), facendo riferimento ancora agli importi definiti dall’art. 6, comma 7-bis, del d.l. n. 76/2020. Ha inoltre stabilito (comma 5, primo periodo) che “il compenso complessivo spettante al Collegio non può superare il triplo della parte fissa” e introduce la previsione di un rimborso delle spese a carattere non remunerativo per i componenti.

La disciplina codicistica è tuttavia ancora incompleta, in quanto la definizione dei parametri sia per la determinazione dei compensi come pure per le spese non aventi valore remunerativo, sarà oggetto di apposite Linee guida, da adottare con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, previo parere conforme del Consiglio superiore dei lavori pubblici (art. 1, comma 6, All. V.2), per le quali vengono unicamente fissati i criteri (valore del contratto; complessità dell’opera; esito e durata dell’impegno richiesto; numero e quantità delle determinazioni assunte; erogazione secondo un principio di gradualità)[25], mentre le precedenti Linee guida continueranno ad applicarsi in tema di determinazione dei compensi (art. 1, comma 6, ultimo periodo, All. V.2).

Vanno invece condivise altre soluzioni, tese a risolvere criticità riscontrate (per le quali può sostenersi l’immediata applicabilità, anche in assenza di presa posizione delle parti, stante la natura interpretativa).

In primo luogo, la precisazione (art. 1, comma 5, ultimo periodo, dell’All. V.2) per cui ai componenti del collegio consultivo tecnico non si applica l’art. 3 della l. n. 136/2010 in materia di tracciabilità dei flussi finanziari. Ciò esclude che le stazioni appaltanti possano richiedere l’apertura di conti correnti appositamente dedicati (ancorché in via non esclusiva) all’incarico. Trattandosi di disposizione interpretativa, ne deriva che anche le precedenti richieste debbano considerarsi senza causa e quindi si possa procedere alla chiusura dei conti correnti eventualmente già accesi.

Si precisa inoltre (art. 5, comma 3, ultimo periodo, All. V.2), in attuazione dell’introdotto principio di gradualità nell’erogazione dei compensi che, in caso di sostituzione del componente dimissionario, il compenso spettante al sostituto “sarà pari alla parte fissa non ancora maturata dal componente dimissionario e alla parte variabile che dovesse maturare”. Resta ovviamente aperto il tema del destino delle somme eventualmente già corrisposte in un’unica soluzione ad un componente poi sostituito, soprattutto per chiarire le possibilità di ripetizione.

Tuttavia il tema dell’economicità, intesa nel senso complessivo di risparmio sulle spese di contenzioso, è ancora tutto veramente da vagliare e manca una chiara ed esaustiva disamina della questione.

L’affermazione che il CCT rappresenti una soluzione meno oneroso rispetto agli altri strumenti di risoluzione delle controversie è comune in dottrina, sulla scorta di ragionamenti di buon senso comune che si fondano in gran parte sulla predeterminazione massima della spesa sostenibile.

Tuttavia, la sua accettazione è resa perplessa dal fatto che manca uno studio ad hoc e ci si muove su affermazioni di carattere meramente ipotetico, mentre invece sarebbe sicuramente opportuna una valutazione ex post di dati in aggregato che, al momento, non è dato rinvenire. Si noti, ad esempio, che in alcuni contesti convegnistici alcune grandi stazioni appaltanti hanno fatto rilevare come il CCT porti ad una percentuale di accoglimento delle pretese della parte privata di molto superiore rispetto a quella riscontrata dinanzi al giudice ordinario, rimettendo così in dubbio il tema dell’economicità come effetto.

Appare dunque evidente che il tema dell’economicità dovrà essere vagliato in modo diverso: considerando la questione anche nell’ottica della durata del contenzioso e della sua incidenza sulla tenuta giudiziaria delle pretese delle imprese meno attrezzate; come pure in relazione alla quantità di decisioni prodotte, che risulteranno singolarmente meno onerose in quanto aumentate a parità di compenso massimo attribuito; e infine in rapporto ad altri strumenti di risoluzione del contenzioso.

Insomma, il tema dell’impatto economico (e non del mero costo vivo delle spettanze dei componenti) del CCT è la vera sfida sulla quale si valuterà l’economicità complessiva, valutazione che sarà però possibile solo quando saranno disponibili dati aggregati a livello ordinamentale.

7. Considerazioni finali

Come sempre, le soluzioni di oggi sono i problemi di domani e l’intervento correttivo al codice non fa eccezione alla regola: risolve alcune incertezze interpretative riscontrate nella prassi; introduce soluzioni innovative tutte da valutare; rinvia ad altre che verranno adottate in provvedimenti in attesa di emanazione.

Complessivamente, sono molte le ragioni per ritenere il CCT uno strumento effettivamente utile, nell’ottica di efficienza ed efficacia amministrativa per i quali è stato introdotto: può ben essere uno mezzo di giustizia ulteriore, meglio se alternativo rispetto alla tutela ordinaria, per garantire le posizioni delle parti; può operare con tempestività ed immediatezza, stante la sua vicinanza all’azione delle parti coinvolte e vista la sua particolare composizione, dove sono coinvolte le professionalità necessarie per decidere le controversia, senza doversi appoggiare a strumenti consulenziali esterni; può addentrarsi in valutazioni direttamente mirate a conseguire gli obiettivi codicistici, quelli della “soluzione migliore”, della “celere esecuzione” e della “regola d’arte”.

Non necessariamente il legislatore ha considerato tuttavia paritarie le diverse funzioni, per cui non può dirsi che il loro sviluppo sia stato davvero armonico. Se l’obiettivo atteso del correttivo era principalmente quello di un incisivo rafforzamento del sistema CCT, va detto che è stato sicuramente raggiunto sul versante pubblicistico, soprattutto nel dimensionamento delle decisioni, determinando uno scossone che non ha trovato ancora uniforme condivisione né in dottrina né tra i pratici. Dall’altro lato, quello privatistico, resta ancora irrisolto il tema principale, quello dell’accesso alla pienezza funzionale del CCT, dove forse, per una probabilmente eccessiva prudenza, non sono state considerate appieno la potenzialità del sistema arbitrale, che appare ancora balbettante, sottoposto a vincoli e condizioni che ne limitano l’impiego.

Si può solo auspicare che il legislatore del prossimo correttivo si svincoli dalle ambiguità e indichi davvero quale sia la funzione principale da attribuire al CCT.

 

Diego Sabatino

Presidente di Sezione del

Consiglio di Stato

 

 


[1] Introdotto dall’art. 207 del D,Lgs 18 aprile 2016, n.50, viene espunto dall’ordinamento dall'articolo 121, comma 1, del D.Lgs. 19 aprile 2017, n. 56. Il decreto semplificazioni è il D.l. 16 luglio 2020, n.76

[2] D.Lgs 31 marzo 2023, n.36 codice dei contratti pubblici

[3] Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili, decreto 17 gennaio 2022 n. 12 “Adozione delle linee guida per l’omogenea applicazione da parte delle stazioni appaltanti delle funzioni del collegio consultivo tecnico.

[4] Su questi temi, I. Lombardini, Spunti ricostruttivi sulla disciplina del Collegio Consultivo Tecnico nel nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36/2023), Rivista dell'Arbitrato, fasc.4, 2023, pag. 991; R. Tuccillo, Clausola di costituzione del collegio consultivo tecnico, in M. Confortini, Clausole negoziali vol. II, Torino 2024

[5][5] D.Lgs 31 dicembre 2024, n.209

[6] Su cui, C. Pagliaroli, Il nuovo “volto” del collegio consultivo tecnico dopo le novità introdotte dal decreto correttivo (d.lgs. n. 209/2024), in www.appaltiecontratti.it

[7] Si tratta di una innovazione piuttosto recente introdotta a far data dal 20 marzo 2006 tramite l’art. 20 del D.Lgs 2 febbraio 2006 n. 40.

[8] Sui diversi tipi di intervento arbitrale e le relative dinamiche applicative, F.P. Luiso, Diritto processuale civile - V La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, Milano 2017, pag. 145 sgg..

[9] Su questa difficile conciliazione di esigenze, cfr. F. Francario, Il Collegio consultivo tecnico. Misura di semplificazione e di efficienza o inutile aggravamento amministrativo?, in Giustizia insieme, 2022; F. Goisis, Il collegio consultivo tecnico nella sua veste arbitrale: profili sostanziali e di tutela giurisdizionale, in Giustizia insieme, 2024.

[10] Si tratta dell’accoglimento di un’osservazione del Consiglio di Stato, per cui “il collegio consultivo tecnico interviene con ‘determinazione’ solo ove vi sia una richiesta congiunta in tal senso delle parti, con l’ulteriore specificazione che tale determinazione avrà natura di lodo contrattuale ai sensi dell’articolo 808-ter del codice di procedura civile a condizione che le parti medesime convengano ulteriormente espressamente di attribuirvi tale valore. Fuori di tale ipotesi la forma ordinaria di pronuncia obbligatoria del collegio consultivo tecnico resterebbe, invece, il parere (anche su istanza di una sola delle parti)”, Cons. Stato, Commissione speciale, parere n. 1463 del 2 dicembre 2024.

[11] Ossia: se la convenzione dell'arbitrato è invalida, o gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai suoi limiti e la relativa eccezione è stata sollevata nel procedimento arbitrale; se gli arbitri non sono stati nominati con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale; se il lodo è stato pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell'articolo 812, cioè se gli arbitri non hanno in tutto o in parte la capacità legale di agire; se gli arbitri non si sono attenuti alle regole imposte dalle parti come condizione di validità del lodo; se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio.

[12] Corte cost., 9 maggio 1996, n.152, espressione di un principio oramai consolidato, su cui, da ultimo, Corte cost. 8 giugno 2005, n. 221.

[13] Cass. civ., I, 4 aprile 2024, n. 8863)

[14] Sulla puntuale individuazione dei due diversi profili, F. Goisis, Correttivo 2024 e collegio consultivo tecnico: prime osservazioni, in Giustizia insieme, 2024.

[15] Per tutti, F.P. Luiso, Diritto processuale civile, cit., pag. 147 sgg..

[16] F. Goisis, Correttivo 2024, cit..

[17] Per tutte Cass. civ. I, 23/02/2022, n.5901 “L'appaltatore, il quale pretenda un maggior compenso o rimborso rispetto al prezzo contrattualmente pattuito, a causa di pregiudizi o maggiori esborsi sopportati per l'esecuzione dei lavori, ha l'onere d'iscrivere apposite riserve nella contabilità entro il momento della prima annotazione successiva all'insorgenza della situazione integrante la fonte delle vantate ragioni (e ciò anche con riferimento a quelle situazioni di non immediata portata onerosa, la cui potenzialità dannosa si presenti, fin dall'inizio, obiettivamente apprezzabile secondo criteri di media diligenza e di buona fede), nonché di esplicarle nel termine di quindici giorni e poi di confermarle nel conto finale, dovendosi altrimenti intendere definitivamente accertate le risultanze della contabilità.”

[18]  Come nel caso dell’obbligo del quinto, di cui all’art. 120, comma 9, del codice, a meno di non volerne sostenere una configurazione autonoma, differenziata da quella di variante, come sembra emergere dal parere n.2918 del 29/10/24 del Ministero delle infrastrutture

[19] Quaderno Anci n.55 “Decreto legislativo n.209/2024 (correttivo appalti) prime linee guida operative e schema di regolamento per affidamenti sotto soglia aggiornato”, marzo 2025.

[20] Si noti che, sull’art. 216, il parere del Consiglio di Stato chiedeva solo di precisare quando si usa il parere e quando invece la determinazione.

[21] Cass civ., II, 13 aprile 2022, n. 12058.

[22] Insiste sulla funzione di etero integrazione della normativa unionale, F. Goisis, Il collegio consultivo tecnico come strumento di conciliazione e di arbitrato nell'interesse della celere ed esatta esecuzione del contratto, Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 1/2024

[23] Si noti invece come, in tema di accordo di collaborazione, l’allegato II.6-bis, art. 4, comma 2, preveda in modo più stringente che “In caso di costituzione di un collegio consultivo tecnico ai sensi degli articoli 215 o 218 del codice, le parti dell'accordo di collaborazione sono tenute ad osservare i pareri e le determinazioni del collegio, ove incidenti su aspetti da esso regolati.».

[24] Punto 84.3 del parere della Commissione speciale.

[25] Si tratta di un modulo procedimentale che ha suscitato puntuali osservazioni da parte del Consiglio di Stato (cfr. punto 84.2, lett. c).